giovedì 25 ottobre 2012

I Giuristi Cattolici e Avvenire

Segnaliamo all'attenzione di tutti i soci l'editoriale del Presidente Centrale Prof. Francesco D'Agostino

Un giudice mite, non un giudice scettico

In “Avvenire”, 13.10.2012, p. 2

I professori vengono divisi, dagli studenti, in “buoni” e “cattivi”. I “buoni” sono comprensivi, non mettono mai in difficoltà lo studente, gli fanno altre domande se egli non sa rispondere a quella che gli è stata rivolta, sono generosi con i voti. I “cattivi” sono terribilmente esigenti, non mettono mai gli studenti a loro agio, pretendono nelle interrogazioni risposte assolutamente esaurienti e sembrano soddisfatti solo quando  danno voti bassi. Analogamente, anche i giudici vengono distinti, dagli imputati, in “buoni” e “cattivi”. I giudici cattivi diffidano per principio dell’imputato, cercano di metterlo in difficoltà o di coglierlo in contraddizione appena possono, vanno alla ricerca del capo di imputazione più severo e tendono sempre a dare il massimo della pena. Prototipo del giudice cattivo è Adam Weir, il padre del protagonista dell’ultimo romanzo (rimasto purtroppo incompiuto) di Stevenson,  Weir of Herminston: un giudice obiettivamente sadico e talmente inflessibile da giungere al punto di condannare all’impiccagione il proprio stesso figlio. I giudici buoni, invece,  sono comprensivi, danno credito alle dichiarazioni degli imputati e, quando devono condannarli, riconoscono loro tutte le possibili attenuanti, in modo da mitigare al massimo la pena: la loro identità si riassume in quella di Paul Magnaud (1848-1926), non a caso soprannominato “Le bon juge”, al quale è attribuita l’affermazione: “Il giudice può e deve interpretare con umanità le prescrizioni inflessibili della legge”.
Giudici cattivi non ne esistono più, almeno in Europa. Se la carcerazione, soprattutto in Italia, è dura, lo è per il dilagare della detenzione preventiva; quando arriva (sempre troppo in ritardo) la condanna definitiva, si scopre che le sentenze penali sono, tranne casi rarissimi, obiettivamente molto miti e apertissime in genere a utilizzare tutte le possibili alternative al carcere che il sistema giudiziario prevede. E’ come se tutti i giudici fossero ormai collocabili nella categoria dei “buoni”. Il Tribunale della Città del Vaticano non fa eccezione alla regola:  ha emesso, nei confronti del maggiordomo del Papa, una condanna che tutti hanno riconosciuto come molto mite e che, anche per questo, potrebbe ulteriormente favorire un provvedimento di clemenza del Pontefice nei suoi confronti.
C’è però una differenza sostanziale tra la mitezza delle sentenze penali italiane e quella del Tribunale vaticano, su cui è opportuno riflettere. Per quanto come ordinamento giuridico la Città del Vaticano sia del tutto analogabile a qualunque altro ordinamento statuale, esso ha la peculiarità di essere fondato in modo radicale e non formale sul Vangelo; quel Vangelo nel quale Cristo definisce se stesso “mite ed umile di cuore” ed invita gli uomini ad imitarlo. La mitezza di Cristo, in altre parole, non è un elemento che interviene a modellare dall’esterno, per dir così, il diritto del Vaticano, ma appartiene ai suoi principi fondanti, quale poi che sia l’espressione concreta con la quale essa si possa manifestare nelle diverse norme giuridiche che i giudici sono chiamati ad applicare. Giustizia e mitezza sembrano essere, in altre parole, due termini che non possono essere separati, come avverte ogni giudice che giudicando abbia presente il volto di Cristo.  Ben diversa appare invece la mitezza dei giudici, pur giusti giudici, che hanno come punto di riferimento non Gesù Cristo, ma la sovranità popolare. La loro mitezza non sembra avere più  oggi le sue radici né nella giustizia, né in una visione antropologica come quella cristiana, bensì nello scetticismo giudiziario oggi dilagante. Questo scetticismo induce chi deve condannare a ridurre sì le pene al minimo, ma non per rispondere a profonde esigenze di giustizia e di umanità, alle quali si tende a non credere più, ma per tacitare i possibili sgradevoli rimorsi che possono sorgere nell’animo di chi infligge al condannato sofferenze penali; qualcosa di analogo a quello che succede ai professori “buoni”, che promuovono non per convinzione, ma solo per vedere contenti i loro studenti.  In sintesi: il mondo sta diventando sempre più mite; l’aveva ben capito Norberto Bobbio, quando scrisse quel piccolo, ma straordinario libro intitolato Elogio della mitezza. Ma ben diversa è la mitezza che costituisce un principio di vita per coloro che cercano di farsi imitatori di Cristo e la mitezza di chi cede alle tentazioni dello scetticismo giuridico, cioè di chi convinto (a torto) di vivere in un mondo nel quale tutti i valori sono ambigui e relativi, agisce con mitezza, non perché la ritenga un bene, ma perché pensa che l’adoperarla sia la prassi più conveniente per dare equilibrio a un mondo pluralistico e conflittuale. Quello dello scetticismo giuridico è un progetto che nasconde a stento la disperazione che lo caratterizza e la mitezza del giudice scettico, al di là della benevolenza che appare sul suo volto e che caratterizza le sue sentenze, è terribilmente fragile. Credo che sia giunta l’ora di prenderne consapevolezza.

Francesco D’Agostino

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