venerdì 17 febbraio 2012

I Giuristi Cattolici e Avvenire

Segnaliamo all'attenzione di tutti l'editoriale del Presidente Centrale Prof. Francesco D'Agostino:

Ma le leggi non possono evolvere in tribunale
in  “Avvenire”, 12.02.2012, p. 2

Lascio ad altri (o ad altre occasioni) una calibrata valutazione politica dell’ “emendamento Pini”, approvato alla Camera, che, se confermato in Senato, consentirebbe la citazione diretta di un giudice da parte di un cittadino che si ritenesse da lui danneggiato per dolo, colpa grave o “violazione manifesta del diritto”. La questione della responsabilità dei magistrati è molto complessa, come emerge dai mille commenti che il caso ha suscitato. Preferisco soffermarmi a ragionare su uno solo di questi commenti, una dichiarazione attribuita a un autorevole magistrato di Cassazione, Giuseppe  Maria Berruti. A suo avviso, se la norma fosse definitivamente approvata “sarebbe la fine della giurisprudenza evolutiva. Tutto sarebbe notarile e ancorato ai precedenti di 40 anni fa”.

L’osservazione appare sulle prime sensata, soprattutto in un’epoca, come la nostra, attentissima ai cambiamenti “storici” e tutta protesa a recepire i “segni dei tempi”. Il punto è che questi cambiamenti e questi segni devono essere valutati da chi ha una responsabilità politica, cioè dal legislatore, che ha appunto il compito di intervenire nella legislazione, adattandola al “nuovo che avanza” (si spera saggiamente e rispondendo poi all’elettorato del buono o del cattivo uso della sua “saggezza”). La magistratura, invece, nel nostro paese (diversamente che in altri) non risponde all’elettorato ed è soggetta alla legge (art. 101 della Costituzione). La questione essenziale quindi è questa: è compatibile un’ interpretazione “evolutiva” con la soggezione del giudice alla legge?

Temo proprio di no. Non voglio entrare qui in spinose questioni di teoria dell’interpretazione, come quelle che distinguono diverse legittime modalità di interpretazione, quella letterale e quella storica, quella restrittiva e quella estensiva, quella analogica e quella appunto “evolutiva”. Vorrei soltanto rimarcare che, rispetto alle altre, quella evolutiva è un’interpretazione “straordinaria”, che forza indebitamente sia la lettera che lo spirito della legge. Nelle altre forme di interpretazione, infatti, il giudice opera come custode dell’ordinamento, utilizzando nell’ applicazione che è chiamato a fare del testo normativo fattori che sono intrinseci alla legge. Nell’interpretazione evolutiva, invece, il giudice pone se stesso come motore del cambiamento sociale e pretende di leggere nella legge ciò che nella legge non c’è, ma che egli vorrebbe tanto che ci fosse. Il giudice, però, non esiste per modellare la società futura, ma per tutelare quella esistente. L’interpretazione evolutiva può anche essere, in singoli casi concreti, sacrosanta, ma non è mai democratica, perché viola le competenze del Parlamento e in un certo senso erode la sovranità popolare, che va esercitata “nelle forme e nei limiti della Costituzione”.

A dimostrazione della pericolosità delle interpretazioni evolutive, basti riflettere ai tentativi di sottoporre a questa forma di interpretazione non solo le leggi ordinarie, ma perfino gli articoli della Costituzione stessa. Si cerca di sostenere che l’art. 29, che definisce la famiglia come “società naturale fondata sul matrimonio” possa essere evolutivamente interpretato fino a ricomprendere forme di unione omosessuale. Si vuol leggere evolutivamente l’art. 32, secondo comma, che si limita ad affermare che nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario, se non per disposizione di legge, come se vincolasse i medici ad obbedire ciecamente alle prescrizioni di un testamento biologico di contenuto eutanasico. Si è perfino cercato, con estrema sottigliezza, di rileggere la forte affermazione dell’art. 11 (“L’Italia ripudia la guerra”) per sostenere che il “ripudio” non equivale a una “negazione” e che quindi sarebbero legittime non solo le spedizioni militari in altri paesi di carattere umanitario e finalizzate alla promozione della pace, ma anche quelle con più generali obiettivi strategici e geopolitici. E infine, sempre in omaggio a problematiche interpretazioni “evolutive”, si è cercato di svuotare di senso termini fondamentali come quelli di “fedeltà” e di “onore”, richiamati dalla Costituzione nell’art. 54, come se i tempi “evoluti” in cui viviamo ci imponessero di dare una lettura esclusivamente “privata” (e quindi né “giuridica” né “politica”) di questi valori.

Potrei andare avanti a lungo. “Tempora mutantur”, la storia va sempre avanti, dicevano i classici. Lo sappiamo. Ma è compito della politica, anzi è il suo più nobile compito, leggere i segni dei tempi, interpretarli e tradurli in buone leggi. Il compito dei giudici, non meno nobile, ma ben diverso, è solo quello di applicare le leggi secondo giustizia. Speriamo che i giudici se lo ricordino sempre.

Francesco D’Agostino

http://www.avvenire.it/